CON... GIUSEPPE VERCELLI - RESP. AREA PSICOLOGICA JUVENTUS F.C.



di Marco Fanuli

Oggi la figura dello psicologo (detto anche "Esperto in psicologia della prestazione umana") è molto più presente nel calcio, anche a livello dilettantistico. Abbiamo raggiunto il Prof. Giuseppe Vercelli, responsabile dell’area psicologica della Juventus e docente di Psicologia sociale e Psicologia dello Sport presso l’Università degli studi di Torino, un esperto capace di illustrarci in modo semplice e allo stesso tempo professionale, tutte le dinamiche - positive e negative - che stabiliscono se un ragazzo avrà la forza di reggere l’impatto emotivo con il calcio professionistico oppure no.

PdC: Psicologo, mental coach o come denominato tempo fa da Andrea Ranocchia su corriere.it "esperto in mental training"? Quale figura rappresenta e quale, secondo lei, crea confusione?
GV:
"Esperto in Psicologia della Prestazione Umana" è il modo giusto per definire la professione. Rispetto ad esempio alla figura del "motivatore", l’esperto in questa disciplina conosce e opera sui meccanismi mentali che governano la performance. Agisce quindi sulla struttura dell’atleta, non avvalendosi di tecniche suggestive che generano dipendenza. L’allenamento mentale, per come lo intendiamo, deve permettere al singolo di raggiungere il proprio massimo potenziale, promuovendone però l’autonomia e l’indipendenza. Ciò che quindi ci differenzia dagli altri professionisti del settore riguarda il fatto di supportare l’atleta in un percorso di crescita che lo porterà ad acquisire degli strumenti che, in piena autonomia, gli permetteranno di incorporare e governare i propri meccanismi mentali.

PdC: Lo stesso Ranocchia ha poi aggiunto: "Ho iniziato a giocare negli anni del nonnismo pesante in spogliatoio...". Ha riscontrato casi simili durante la sua esperienza nel mondo del calcio?
GV:
Il primo passo per fronteggiare qualsiasi sfida è sicuramente quello di acquisire consapevolezza rispetto a essa. Il problema può quindi muovere verso la risoluzione solo nel momento in cui si ha capacità di riconoscerlo, identificandolo come "problema". Solo da quel momento in avanti sarà possibile attribuire un "significato" a quella situazione-problema in modo da strutturare delle strategie che permettano al singolo e al gruppo di individuare le azioni da compiere. È però nel e dal gruppo che deve nascere la soluzione, perché solo da esso si potrà giungere alla strategia "corretta".



PdC: Il suicidio di Robert Henke (Hannover) nel 2009, la crisi depressiva nel 2008 confessata da Buffon e il tentato suicidio di Pessotto nel 2006. Quali possono essere i fattori che portano a questi gravi disagi psicologici?
GV:
Molte volte osservare con gli occhi dell’opinionista che non conosce la realtà porta l’individuo a "valutare" e a commettere errori di giudizio. Dietro tutte le persone, campioni compresi, ci sono degli essere umani che possiedono sicuramente molti punti di forza, ma anche fragilità. Ogni episodio è quindi una situazione a sé, una fotografia che può essere influenzata da molteplici elementi che però hanno prevalentemente un fattore comune: il fatto di incidere prevalentemente sull’immagine che la persona possiede di sé. Ciò che invece permette magari a quella stessa persona di esprimere la propria genialità nella pratica sportiva è invece un altro elemento che, in alcuni casi, non è direttamente connesso con l’immagine di sé.

PdC: Sacchi al Mondiale del '94 fu pioniere nel calcio italiano, affiancando ai suoi giocatori degli psicologi, in quel caso, per capire chi fosse più pronto mentalmente ad affrontare la partita. Fortunatamente da qualche tempo la figura dello psicologo è molto più presente, anche a livello dilettantistico. Pensa si sia aspettato troppo tempo prima di introdurla all'interno delle società di calcio?
GV:
Non è mai troppo tardi per prendere in considerazione qualcosa a cui prima non si prestava attenzione, specialmente se questa novità ci può permette di migliorare noi stessi. Iniziare a considerare anche i meccanismi mentali tra gli elementi che influenzano la nostra prestazione ci permetterà di potenziare le nostre qualità e i nostri atleti, avvicinandoci a colmare il gap tra la performance reale e quella potenziale, la massima prestazione possibile.



PdC: Finora abbiamo parlato esclusivamente di giocatori affermati o di società professionistiche, ma quanto è importante "allenare la mente" anche a livello giovanile?
GV:
Proviamo a soffermarci un momento per riflettere su tutte le sfide che un individuo si troverà a dover affrontare durante la propria vita. Probabilmente imparare sin dalle prime esperienze formative a governare i meccanismi che si celano dietro la nostra mente potrebbe rivelarsi un vantaggio "evolutivo" molto importante, in ambito sportivo ma non solo.

PdC: Quali sono le cause più comuni di disagio psicologico nei settori giovanili e quali soluzioni da adottare?
GV:
Anche in questo caso le cause sono molteplici e dipendono molto dalle caratteristiche dell’individuo. Nonostante ciò è però possibile identificare alcuni meccanismi che agiscono principalmente in un’ottica preventiva. Tra le prime soluzioni attuabili riteniamo sia importante costruire un ambiente che sia il più favorevole possibile per il giovane atleta. Per far sì che un ambiente sia "favorevole" esso dovrà fondarsi su una base fortemente valoriale-educativa con un unico obiettivo: la crescita del ragazzo. Ed è tale obiettivo che dovrà essere perseguito, anche a discapito della prestazione sportiva in sé. Solo se il focus sarà sull’uomo e non sul risultato, se l’esperienza formativa sarà fondata su eticità, competenza e (soprattutto) divertimento, allora il settore giovanile avrà "vinto".

PdC: Anche l'eccesso di agonismo può portare ad un disagio delle funzioni psichiche nel giovane calciatore?
GV:
L’intelligenza Agonistica è una caratteristica che potremmo definire insita nell’essere umano, pertanto non sarebbe corretto definirla come un elemento negativo. Ciò che è negativo è il significato che a essa si attribuisce. Nel caso in cui l’agonismo sia qualcosa di estrinseco all’atleta, che proviene dall’esterno (dal contesto, dai familiari, ecc.), è allora possibile che, nel lungo periodo, tale elemento potrebbe diventare un aspetto di disagio. Nel momento in cui però l’intelligenza agonistica è ben sviluppata nell’atleta, egli comprende che ogni sfida che si troverà ad affrontare è, in realtà, una sfida con se stesso. Ed è in questa perenne sfida che la persona è spinta da un bisogno di migliorare, un bisogno che però ha un valore che non riguarda la competizione con l’altro. La competizione più difficile è quella con se stessi e solo se si decide di affrontare questo temibile avversario che è in ognuno di noi si può giungere al proprio massimo potenziale.



PdC: Quando si assiste a partite del settore giovanile ci si rende conto di come le pressioni provenienti anche dal pubblico - spesso rappresentato da genitori e società - possano incidere psicologicamente sui ragazzi. Come si "allenano" in questo caso i genitori, ma anche la società (allenatore compreso)?
GV: Il modo migliore per allenare genitori e società è fare fronte comune. L’obiettivo è quello di porre l’atleta, il bambino al centro di tutto, riconoscendo però i ruoli e i compiti che le figure adulte dovranno avere nel processo di maturazione del ragazzo. Solo attraverso la condivisione e l’alleanza si può generare un ambiente che sia favorevole e il più formativo possibile per il giocatore, per l’"uomo".

PdC: La stragrande maggioranza dei ragazzi presenti nei vivai delle squadre professioniste è destinata a scendere di livello, spesso anche ad abbandonare l'attività sportiva. È risaputo che solo una piccola percentuale di atleti riesce ad affermarsi a medio-alti livelli. Quanto conta l'aspetto psicologico per emergere e come aiutare chi è costretto ad abbandonare il sogno di diventare calciatore?
GV:
L’aspetto mentale, secondo anche quanto riportato in moltissimi casi dagli atleti stessi, è uno degli elementi che influenza la carriera di uno sportivo. È infatti attraverso un processo che coinvolge e integra anche gli aspetti psicologici che l’atleta ha la possibilità di riconoscere e sfruttare a pieno i propri punti di forza, colmando le eventuali aree di miglioramento che lo discostano dall’eccellenza. Lavorare prestando attenzione anche alla psicologia della prestazione significa avere anche l’opportunità di accedere e potenziare l’aspetto auto-motivazionale dell’individuo, permettendogli di usufruire di quel valore aggiunto che costituirà un’arma estremamente efficace durante la performance. Sembrerà paradossale ma, anche per quanto riguarda coloro che invece non hanno l’opportunità di continuare a perseguire il proprio sogno, la strategia è la medesima: accedere al proprio massimo potenziale. Ciò che cambia è l’obiettivo; se per l’atleta il massimo potenziale è in relazione alla prestazione sportiva che è chiamato a svolgere, per chi abbandona, tale potenziale è in relazione al "nuovo percorso" che si delinea. Molto spesso parte del supporto agli ex atleti si struttura in modo da far capire a coloro che terminano il proprio percorso sportivo che in realtà le competenze che hanno maturato sono tante. L’idea è quindi quella di fare un bilancio del percorso, a partire dal quale tirare le somme per capire quali competenze si sono apprese e come, nello specifico, poterle spendere nelle nuove opportunità che avrà la possibilità di ricercare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA - 13 APRILE 2017

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